Il seminario tenuto la scorsa settimana all’Università di Trento dal Prof. Yves Mény, ha offerto interessanti spunti in merito al dibattito attualissimo sull’alternativa fra populismo e riformismo. Secondo il Prof. Mény, il populismo, pur non potendo essere considerato una “deviazione” della democrazia, come spesso affermato dai sui detrattori, è però un sintomo evidente di qualcosa che non funziona.
Tutti i regimi democratici operano grazie alla combinazione di due principi. Da una parte, il principio della sovranità popolare, l’idea che il potere di decidere non sia nelle mani di re, papi o ricchi proprietari, bensì in quelle del popolo. Dall’altra, il principio della rappresentanza, l’idea che, essendo impossibile interpellare in ogni occasione la totalità dei cittadini, le decisioni vengano prese, in loro vece, da un certo numero di rappresentanti. Ogni democrazia si regge su un delicato equilibrio fra i due principi, uno sbilanciamento a favore dell’uno o dell’altro comporterebbe una serie di rischi. Senza mediazioni istituzionali capaci di stabilire procedimenti decisionali e limiti all’esercizio del potere, la sovranità potrebbe degenerare o in un’inconcludente riottosità o, all’opposto, in forme di autoritarismo. La rappresentanza, se distaccata eccessivamente dalla sua fonte, la volontà popolare, rischierebbe o di diventare un esercizio fine a se stesso, distante dai bisogni e i problemi della gente, o, se catturata da interessi particolari, di diventare un potente apparato al loro servizio.
Il populismo è un’ideologia che sorge come reazione a questa seconda deriva. Esso riscuote consensi laddove i cittadini non si sentono più rappresentati dalle istituzioni dei propri paesi, dalle forze politiche tradizionali. Le “soluzioni” proposte dai populisti sono attraenti perché promettono di “andare al grano”, di risolvere in modo “in-mediato” ed apparentemente semplice i problemi della gente. Cacciare i migranti e chiudere le frontiere, punire i politici corrotti e i banchieri, svincolarsi dall’Unione Europea e dall’austerità della BCE, chi più ne ha più ne metta.
Dietro al proliferare di movimenti politici populisti, tanto di destra come di sinistra, c’è dunque qualcosa di più profondo di quel che dicono gli slogan, che finisce per accumunarli. Le retoriche anti-immigranti, anti-austerità, anti-casta, anti-Europa di leader come Le Pen, Grillo, Tsipras, Farage, Iglesias o Trump rivelano i sintomi di una patologia che colpisce la maggior parte delle democrazie occidentali: la crisi del principio di rappresentanza. È dunque su questo che conviene interrogarsi.
Il problema è duplice: il rappresentato perde fiducia nel rappresentante sia se quest’ultimo smette di rispondere, se risulta distante, sia se le sue azioni non ottengono i risultati auspicati, sembrano inutili. Oggi la politica appare inadeguata da entrambi i punti di vista. Da una parte, i canali di trasmissione tradizionali fra cittadini e rappresentati, pensiamo ai partiti politici ma anche ai procedimenti elettorali, fanno fatica a stimolare la partecipazione, a veicolare domande e aspirazioni. I cittadini si sentono ininfluenti, lontani dai luoghi dove si prendono le decisioni e dalle modalità con cui vengono prese. Dall’altra, in mezzo al caos della società globale, la politica diventa sempre meno incisiva, quasi superflua. Le sorti di noi tutti sembrano essere determinate da dinamiche inafferrabili che sfuggono al controllo di chicchessia. Votare per l’uno o per l’altro non sembra davvero poter cambiare il corso degli eventi.
Solo agendo su questi due fronti è possibile battere il populismo. Da una parte, i cittadini devono essere messi in grado di condizionare in modo più diretto le scelte dei politici ristabilendo un rapporto di fiducia-responsabilità reciproca; dall’altra, la politica deve poter incidere in modo più efficace sui problemi sociali così da poter rispondere alle domande della gente. Rispetto alla prima questione, appare fondamentale avviare un processo di ristrutturazione delle istituzioni che, partendo dagli enti locali, arrivi fino all’Unione Europea. I sistemi istituzionali devono permettere ai cittadini di dare un mandato chiaro e forte a rappresentanti in cui si possano identificare. Solo così, scaduta la delega, essi potranno valutare le responsabilità di ciascuno e decidere se riconfermare o mandare a casa. Questa esigenza è particolarmente forte in Italia, dove il caos delle “coalizioni ammucchiata”, degli accordi post-elettorali, dei continui trasformismi ha permesso il riprodursi di corruzione, irresponsabilità politica, presa in giro degli elettori; ma è altrettanto urgente a livello europeo, dove decisioni fondamentali vengono prese da istituzioni che non rispondono in modo diretto ai cittadini.
Rispetto alla seconda questione, la complessità delle sfide presenti e la forza acquisita da attori non-statali quali multinazionali o banche d’affari fa sì che risposte efficaci possano essere date soltanto da istituzioni più forti, tanto a livello nazionale come continentale. Una politica che non riesce a scegliere, che è continuamente ostaggio di lobby organizzate o di minoranze con potere di veto, alla lunga, diventa irrilevante. A questo proposito, la logica maggioritaria deve affermarsi a ogni livello di governo. Molte questioni poi, dal terrorismo al rilancio economico, dalle migrazioni alla politica internazionale, possono oggi essere affrontate in modo adeguato soltanto a livello europeo. S’illude chi auspica un ritorno allo stato-nazione. Solo un’Europa più forte, ma allo stesso tempo più democratica, potrà ridare alla politica la forza di cui ha bisogno.
Benché le proposte del populismo siano spesso irrealistiche e controproducenti e i toni con cui vengono avanzate da ripudiare sarebbe irresponsabile credere che per contrastarle bastino sdegno o snobismo. Se non si affrontano le sue ragione profonde, le fila del populismo continueranno a ingrossarsi con conseguenze difficili da prevedere. Da questo punto di vista, affermare l’importanza delle istituzioni o rifiutare soluzioni semplicistiche ai problemi contemporanei non può essere soltanto un principio da sbandierare ma deve tradursi in un progetto politico concreto. La sfida è quella di rimettere a funzionare le istituzioni in modo che esse possano rispondere per davvero ai problemi della gente. Soltanto portando a termine un programma di riforme coraggiose che siano capaci di rinnovare le nostre democrazie e completare il progetto europeo si potrà mettere fuorigioco il populismo. Si tratta di una sfida complessa che ha bisogno di leader capaci di guardare oltre il loro tornaconto personale, oltre le piccole differenze, oltre l’eterna imperfezione delle cose. Per la sinistra, in particolare, si tratta di un compito aggiuntivo, che si affianca a quello storico di rendere la società più giusta.
Article appeared in Quotidiano l’Adige.
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