Migranti: l’eterno ritorno dell’altro come spiegazione dei nostri problemi

L’interessante dibattito aperto da Francesco Ronchi e Nadia Urbinati sulle pagine di la Repubblica pone una questione cruciale per il futuro della sinistra europea. Come dimostrano il caso austriaco, quello francese, la stessa Brexit, le classi sociali più svantaggiate faticano a sentirsi rappresentate dai loro partiti di riferimento tradizionale e, in modo crescente, votano a destra. Messe alla prova dal declino del proprio reddito, dalla presenza di concorrenti stranieri in ambito occupazionale e di accesso ai servizi pubblici, dagli effetti dell’austerity bruxellese, esse non si riconosco più nell’apertura verso il mondo, nell’accoglienza, nell’europeismo. Ri-nazionalizzazione delle produzioni, chiusura delle frontiere e riscoperta delle radici, recupero delle prerogative dello stato sono proposte che appaiono più attraenti dei vaghi idealismi pro-global delle élites culturali di sinistra. In un contesto di crescente incertezza e ritrovata vulnerabilità, la promessa di un ritorno al passato, anche se solo chimerica, ha il vantaggio di offrire qualcosa di conosciuto e sicuro in opposizione a qualcosa di sconosciuto e, fino ad ora, ben poco rassicurante.

Quello migratorio è forse il tema più critico. L’arrivo di “altri” in un contesto di prolungata crisi economica ha permesso alla destra di configurare il discorso politico nei termini che le sono più congeniali. Resuscitando sue vecchie bandiere come quella di nazione, razza o religione, essa divide i vecchi “ultimi” dai nuovi “ultimi” in schieramenti opposti, riuscendo ad oscurare il fatto che quella fra loro è una battaglia fratricida, una battaglia fra “ultimi”. Una strategia sperimentata, per cui la costruzione di frontiere, fisiche o ideali, ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Così, nella storia, contadini strappati alla campagna si sono trovati una e cento volte a combattere in nome della patria o di chissà quale altra “comunità immaginata” contro altri contadini, uguali a loro, ma con un’altra uniforme.

Per la sinistra, posta in questi termini, la questione diventa effettivamente imbarazzante. Con chi schierarsi? Con gli ultimi (i migranti) o con i penultimi (le classi popolari autoctone)? Alienarsi una parte importante dell’elettorato tradizionale consegnandolo ai populismi o tradire il proprio spirito universalista? Il carattere dilemmatico della questione non sta, tuttavia, nella natura delle cose, ma nell’accettazione acritica della lettura che sta a monte. A ben guardare, il problema non sta nei migranti che usurpano i posti dei nazionali e indeboliscono il tessuto produttivo, ma nell’economia che arranca e non crea occupazione. Non sono i migranti ad abusare dei servizi sociali o ad essere favoriti nelle graduatorie, ma è il welfare state ad essere diventato sempre più striminzito ed inefficiente. Non sono i migranti a indebolire le tradizioni e a complicare la convivenza, bensì lo sfilacciamento dei rapporti sociali e la cattiva gestione dei conflitti.

Per uscire dallo scacco, la sinistra deve trovare soluzioni che rispondano alle ragioni profonde della crisi e non a quelle apparenti. Limitarsi ai buoni sentimenti, alle retoriche solidarie o alle posizioni di principio, come in gran parte ha fatto fino ad ora, sarebbe un errore grave, almeno quanto quello di inseguire la destra. Il disagio della gente cresce e il credito che è disposta a dare alle soluzioni ragionevoli si esaurisce velocemente.

Tre questioni sembrano prioritarie. La prima riguarda il nesso fra crescita economica e coesione sociale. È nel contesto della diminuzione delle risorse disponibili e della cattiva distribuzione delle stesse che i conflitti sociali proliferano. Le differenze sono un elemento di ricchezza fintantoché vi sono opportunità per tutti ma quando la torta da dividere diventa troppo piccola e c’è da lottare per le briciole, esse possono diventare un problema e gli “altri” un potenziale capro espiatorio. Per la sinistra, il tema della crescita economica e dell’innovazione deve affiancare quello più tradizionale dell’eguaglianza.

La seconda riguarda la necessità di rilanciare il welfare state. Innumerevoli ricerche hanno dimostrato che il contributo netto dei migranti alla sostenibilità dello stato sociale è largamente positivo. Se però la qualità dei servizi si riduce e i diritti consolidati iniziano a vacillare, è normale che cresca il malcontento e che gli ultimi arrivati possano essere visti come concorrenti. In molti paesi europei, anche per colpa dell’inerzia delle sinistre, si è fatto poco per aggiornare i regimi di welfare, per tagliare gli sprechi, per rendere più efficienti e universali i servizi. Su questo c’è molto da lavorare e da investire.

La terza riguarda la gestione dell’immigrazione e la mitigazione delle cosiddette “esternalità negative” associate. L’arrivo di stranieri, un fenomeno che continuerà nei prossimi anni, innanzitutto perché è una necessità delle economie e della demografia europea, crea disagi, inutile nasconderlo. Promettere di eliminare la faccenda tout court (zero migranti), come hanno fatto le destre, o negarla come se non ci fosse (tutto liscio, non c’è problema), come hanno fatto le sinistre, sono due modi diversi di non affrontarla. La sottovalutazione del fenomeno migratorio, alla fine, presenta il conto. Emarginazione sociale, conflitti interetnici, lo stesso terrorismo possono in parte essere spiegati dalla poca attenzione ai processi d’inclusione, dal laissez-faire. Una politica responsabile deve affrontare di petto tre questioni cruciali: la creazione di canali di entrata legale che siano commisurati alla domanda delle società europee; la lotta all’economia sommersa e all’impiego irregolare di lavoratori stranieri; lo sviluppo di politiche di integrazione e cittadinanza che, basate in una logica ferrea di diritti/doveri, offrano agli stranieri un percorso d’inserimento chiaro e supportato.

La politica è quell’arte difficile di mettere in rapporto sogni e realtà, principi e circostanze, senza rinunciare ai primi, senza sfuggire ai secondi. Se non vuole perdere il suo popolo, ma nemmeno la sua anima, la sinistra ha oggi il dovere di governare la complessità senza cedere alla paura. Perché le diversità possano rimanere un elemento di ricchezza, non servono muri o frontiere ma dialogo e pari opportunità.

Published by: Quotidiano l’Adige

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