L’Italia davanti a un bivio

Con gli strascichi della battaglia sui diritti civili ancora presenti, prende forma in questi giorni quello che sarà il “dibattito dei dibattiti” di questa legislatura: il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Nel mese di ottobre, i cittadini e le cittadine italiani saranno chiamati ad esprimere il proprio parere sul testo approvato dal parlamento, che modifica in modo sostanziale il sistema istituzionale del paese. Fulcro della proposta è la trasformazione del Senato della Repubblica, fino ad oggi un sostanziale doppione della Camera dei Deputati, nel Senato delle Regioni. Questa nuova istituzione, non più elettiva ma composta da rappresentanti dei consigli regionali (provinciali per Trento e Bolzano), non avrebbe più il potere di dare la fiducia al governo e interverrebbe soltanto in un ambito ristretto di materie. Con una vittoria dei sì andrebbe in porto la più importante modifica della Costituzione dal momento della sua approvazione e si conseguirebbe una notevole semplificazione dei processi decisionali. Si chiuderebbe, inoltre, quella transizione aperta con la fine della Prima Repubblica e protrattasi, in un susseguirsi di fallimenti, fino ai giorni nostri.

Il paese si appresta dunque a vivere uno scontro che potrebbe diventare feroce. Non giova il vincolo fra la riforma e la figura del premier, che ne è padre, ma potrebbe diventarne vittima. Come Renzi stesso ha più volte ripetuto, quello sulle istituzioni è il passaggio cardine del suo disegno. Una bocciatura significherebbe la caduta del governo e la fine della sua carriera politica. Il rischio che il referendum diventi un plebiscito sulla sua persona è grande, soprattutto se dovesse vincere la strategia del carrozzone multicolor che sosterrà il no. I vari Civati e Salvini, Berlusconi (che pure la riforma l’ha votata) e Grillo si troveranno per una volta uniti nell’obiettivo di togliersi dai piedi il nemico comune. Ma se il premier, mettendoci la faccia, ha dimostrato di tenere più alle sue idee che alla sua poltrona, è bene ricordare che in gioco non c’è soltanto la sua sorte, ma quella dell’intero paese. Sarebbe un errore imperdonabile che il dibattito dei prossimi mesi si centrasse su Renzi e non sulla riforma stessa, sulle sue ragioni, sulle sue conseguenze.

Sono questi i temi sui quali desidero proporre qualche riflessione e che saranno al centro del dibattito che si terrà sabato prossimo fra il Prof. Stefano Ceccanti, che presenta il suo nuovo libro La transizione è (quasi) finita, il Sen. Giorgio Tonini, il direttore dell’Adige Pierangelo Giovanetti ed Elisa Filippi.

A molti, viste la drammaticità della crisi economica e la presenza di sfide complesse quali la gestione dei flussi migratori, la lotta al terrorismo o la tenuta dell’UE, potrebbe sembrare triviale discutere di Senato. Centrarsi sulle riforme istituzionali non significa però sottovalutare i problemi più tangibili, ma, al contrario, prendere atto che essi sono di tale portata che l’Italia non può più permettersi di affrontarli con mezzi decisionali inadeguati. Se i procedimenti istituzionali non funzionano, infatti, ci si ritrova ad affrontare ogni sfida, dalla più piccola alla più grande, nelle peggiori condizioni. Come una squadra di calcio che dovesse giocare senza allenatore o un maratoneta che corresse con una gamba ingessata.

Il modello decisionale disegnato dalla Costituzione fu pensato in un momento in cui era ancora fresca la memoria del ventennio fascista. Il bicameralismo paritario, prevedendo che ogni legge dovesse essere approvata da due camere, voleva stimolare una logica dell’accordo, onde evitare che qualcuno potesse dare un orientamento unilaterale alla politica del paese. Quello che, da un certo punto di vista, poteva apparire come un modello di democrazia, figlio dello spirito della Resistenza, si tradusse ben presto in un sistema di governo inefficace. Le politiche prodotte non erano il risultato d’intese lungimiranti volte al bene comune ma, piuttosto, di accordi al ribasso che non scontentassero nessuno. Non soltanto diventò impossibile adottare quelle decisioni strategiche che si rendevano necessarie, ma, la responsabilità di tale negligenza, ricadendo su tutti, non poteva essere imputata a nessuno.

Com’è noto, grazie a questo sistema, l’Italia, nonostante le sue immense risorse, diventò il malato d’Europa. Non c’è nessuno dei problemi che affliggono attualmente il paese, dalle mafie alla bassa crescita, dall’enorme debito pubblico all’inefficienza dell’amministrazione pubblica, dalla corruzione dilagante alla devastazione del territorio, che non si possa mettere in relazione con le disfunzioni del sistema politico. Se, d’altra parte, le regole del gioco non funzionano, se ogni scelta diventa una non-scelta, se nessuno è mai responsabile di nulla, è normale che confusione, affarismo e inconcludenza dilaghino.

Anche le vicende politiche più recenti sono un chiaro esempio di questi problemi. Ognuna delle riforme renziane che miracolosamente è andata in porto lo ha fatto in modo diluito, depotenziato. A ogni passaggio si è dovuto pagare il prezzo dell’assenza di una maggioranza coesa e della presenza di poteri di veto incrociati. Spesso si sono dovute accantonare o annacquare le proposte più coraggiose pur di portare a casa un risultato. Un’azione davvero ambiziosa in ambiti quali, per esempio, la riduzione della spesa pubblica, il taglio dei privilegi, o l’applicazione di criteri meritocratici richiede un potere di decisione che il sistema politico italiano oggi non possiede.

Ecco, l’Italia si trova davanti a un bivio: rimanere un paese senza una guida chiara, che si accontenta di galleggiare grazie alle “mezze scelte” di politici irresponsabili, o diventare un paese politicamente moderno, con istituzioni efficaci e una classe dirigente che, senza più alibi, debba finalmente governare e rispondere dei risultati raggiunti.

Published by: Quotidiano L’Adige

0 comments