Elezioni USA: fin dove arrivano le certezze?

Come ogni quattro anni, a Novembre i cittadini degli Stati Uniti d’America sono chiamati ad eleggere il proprio Presidente, in concomitanza con il rinnovo della Camera dei Rappresentanti ed un terzo del Senato. Se quest’anno la candidatura alla Presidenza di Donald Trump, un mix di populismo e nativismo, e la sua vittoria alle elezioni primarie del Partito Repubblicano, hanno scombussolato tutti gli equilibri convenzionali e le analisi politiche classiche, le ‘general elections’ si giocano su diversi fronti.

La partita infatti, benché aperta secondo i più recenti sondaggi sulle intenzioni di voto, deve tener conto del cosiddetto ‘ground game’ dei candidati, ovvero: a) delle infrastrutture organizzative costruite sul territorio degli Stati; b) della presenza mediatica sui mezzi di comunicazione; c) della capacità di finanziamento, sia a livello personale, che di partito politico. Ebbene, su questi tre aspetti la candidata del Partito democratico, Hillary Clinton, appare in netto vantaggio. Un vantaggio che, per Trump, appare difficile da colmare a un mese e mezzo dal voto.

La rodata macchina organizzativa dei Clinton, appoggiandosi sui database dell’equipe di guru tecnici come David Axelrod, John Podesta e Jim Messina (coordinatori delle campagne elettorali di Obama 2008 e 2012) ha avuto accesso a milioni di elettori potenziali e ha messo in atto una campagna aggressiva per contattarli, mobilizzarli e portarli alle urne. Il fundraising della Clinton è iniziato già nel 2015, e grazie alle relazioni politiche da lei stabilite con vari donatori nei suoi anni di Senatrice per lo Stato di New York e poi come Segretario di Stato, ha generato circa 350 milioni di dollari fino ad oggi. Ciò le ha permesso di incrementare la sua presenza mediatica su radio, tv ed internet, permettendole di raggiungere ulteriori potenziali elettori.

La campagna di Trump si è invece quasi totalmente appiattita sull’immagine da reality show del tycoon miliardario. Trump ha addirittura espresso la sua volontà di rifiutare finanziamenti esterni che, a suo dire, snaturerebbero la sua campagna a favore dei poteri forti. Così facendo ha però ceduto alla Clinton il controllo dell’elettorato potenziale, nel momento chiave in cui i candidati devono far conoscere le loro posizioni politiche al grande pubblico, quello che non segue la politica quotidianamente. Recentemente, Trump ha cambiato tattica, intensificando il fundraising e collegando maggiormente la sua campagna con quella del Partito Repubblicano. Tuttavia, questo cambiamento appare tardivo. Non a caso molti donatori tradizionali – tra cui il magnate dei casinò di Las Vegas Sheldon Adelson, che aveva investito oltre 100 milioni di dollari su Mitt Romney (Candidato Repubblicano 2012) – sono oggi rimasti indifferenti alla chiamata di Trump.

Questi donatori, considerando Trump un candidato troppo debole, hanno infatti deciso di focalizzarsi sulle elezioni ‘down-ballot’, ovvero quelle dei Rappresentanti da inviare al Congresso. Se la maggioranza della Camera dei Rappresentanti, saldamente controllata dai Repubblicani, appare infatti inespugnabile per i Democratici, la partita vera si gioca al Senato. Qui, i Repubblicani hanno una maggioranza risicata. Con la possibile conquista di quattro seggi, , però, i Democratici potrebbero riprenderne il controllo perso nel 2014. Come si sa,, l’agenda di ogni Presidente negli Stati Uniti è strettamente legata alle maggioranze congressuali. In questo senso, l’obbiettivo ancora non dichiarato dei donatori repubblicani, in gran parte rassegnati ad un ‘President Clinton’, è quello di mantenere il controllo del Senato, permettendo così di bloccare ogni importante iniziativa legislativa portata avanti dai democratici. La prima delle quali sarà la conferma del nono giudice della Corte Suprema, nomina finora bloccata dai Repubblicani al Senato, e che può modificare la direzione generale della giurisprudenza legislativa federale per le prossime generazioni.

Il controllo del Senato, come quello delle elezioni per il Presidente, si gioca in una manciata di Stati, tradizionalmente definiti ‘purple States’, ovvero dove l’elettorato è molto mobile e le maggioranze politiche cambiano frequentemente: Florida, Ohio, Virginia, North Carolina, New Hampshire, Pennsylvania, Nevada, Colorado. Tuttavia, anche qui, i candidati democratici al Senato si possono appoggiare sulla superiore organizzazione della Clinton e tendono a collegare il loro opponente repubblicano a Trump e alle sue politiche, con l’intenzione di screditarne l’immagine. Il controllo finale del Senato, secondo le previsioni degli analisti politici più noti (Nath Silver, Chris Cillizza, Stuarth Rothenberg, Charlie Cook) si giocherà tra New Hampshire – Ayotte (R) vs Hassan (D), Nevada – Heck (R) vs Cortez Masto (D), e Pennsylvania – Toomey (R) vs McGintie (D). Attenzione però alle sorprese di questa campagna elettorale, inusuale per gli standard recenti: nessuno degli analisti sopra citati aveva infatti previsto una vittoria di Donald Trump alle primarie repubblicane.

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