Avete mai provato a trattenere l’acqua fra le mani? Per quanto impegno ci mettiate, dopo pochi secondi, l’acqua sarà tutta scappata. Troppo forte la forza di gravità, la fluidità del liquido; troppo debole e precario il nostro tentativo di saldare, ancorché momentaneamente, utensili di carne fatti per muoversi. Le migrazioni sono come l’acqua e le politiche restrittive come le dita delle nostre mani: per quanto sforzo facciano i governi, per quanto alte si costruiscano le barriere, i migranti trovano sempre il modo di arrivare laddove il cammino doveva portarli. Troppo forti la volontà di partire, il bisogno di cercare un riscatto, di evadere situazioni inumane; troppo inconsistenti e incoerenti i tentativi di fermare un flusso che trova nei paesi di arrivo i suoi principali sponsor: la domanda di mano d’opera, il bisogno di rimpiazzare popolazioni sempre più senescenti.
La storia insegna che tutte le volte che la politica ha provato a fermare processi fortemente radicati nei bisogni degli individui o delle comunità, essa ha inevitabilmente fallito e lo ha fatto talora scrivendo le pagine più oscure del suo libro. Compito della politica non è quello di determinare i processi sociali, di manipolarli a proprio piacimento, bensì quello di governarli, di limitarne le “esternalità” (gli effetti di un determinato processo sociale sugli altri processi sociali) negative e di rafforzarne quelle positive.
Le migrazioni sono il risultato congiunto dell’interazione fra potenti forze di espulsione, che agiscono nei luoghi di origine dei migranti, e altrettanto potenti forze di attrazione, che agiscono nei luoghi di arrivo. Fra le prime: povertà, guerra, persecuzioni politiche e religiose, assenza di opportunità, negazione della libertà; ma anche la curiosità insita nello spirito umano, la volontà inesauribile di scoprire, di viaggiare, di vedere cosa c’è al di là di ogni barriera, fisica o mentale. Fra le seconde: la domanda di forza lavoro in quei settori dove le popolazioni autoctone non desiderano impiegarsi o nell’economia sommersa; la necessità di forze nuove per permettere la sostenibilità dell’economia e del welfare in contesti sempre più contraddistinti dall’invecchiamento della popolazione. Se da una parte esiste una fortissima domanda “di migrare” e dall’altra una fortissima domanda “di migranti” sembra normale che queste cerchino di incontrarsi e che, in un modo o nell’altro, alla fine, ci riescano.
Quale dovrebbe essere il compito della politica di fronte a questo stato di cose? Le migrazioni, specialmente quelle massive, come ogni trasformazione degli assetti sociali, producono disagi. I cambiamenti richiedono la revisione di equilibri assodati, di consuetudini durature, di proiezioni sul futuro date per certe. Da questo punto di vista, provare a ridurre la dimensione dei flussi permetterebbe ai mutamenti di avvenire in modo meno repentino e decisamente più gestibile. Sono necessarie politiche che cerchino di mitigare tanto i fattori di espulsione quanto quelli di attrazione. Il primo obiettivo richiede interventi più coerenti e sostanziosi di solidarietà transnazionale che favoriscano lo sviluppo sostenibile delle zone più povere del mondo, così come la diminuzione dei conflitti. Il secondo esige innanzitutto la messa in campo di politiche serie di contrasto all’economia sommersa.
Tuttavia, per quanto efficaci possano essere gli interventi volti a ridurre i flussi migratori, è bene assumere che questi non spariranno e, al contrario, rimarranno sostenuti nei decenni a venire. Non potendo eliminare il fenomeno, la politica deve costruire le condizioni perché questo possa avvenire nel modo più ordinato e trasparente possibile. Nella maggior parte dei paesi di arrivo, tuttavia, è avvenuto l’esatto contrario. Negando la realtà migratoria, i tentativi tanto ipocriti quanto velleitari di contrastarla militarizzando le frontiere o criminalizzando le persone hanno ottenuto il solo risultato di farla avvenire nelle peggiori condizioni possibili.
Quando non ci sono canali legali per migrare, la gente è costretta a muoversi usando canali illegali (circuendo i controlli o permanendo oltre la scadenza dei visti turistici), all’oscuro delle autorità, alla mercé di criminali e trafficanti. In questi anni, al netto degli slogan anti-immigrazione e delle retoriche restrittive, le politiche dei governi di destra quanto di sinistra hanno de facto contribuito alla “costruzione istituzionale della irregolarità”. Disconoscendo le cause e colpendo gli effetti del processo, essi hanno sistematicamente creato legioni di migranti “clandestini” per poi, ogni tanto, doverli regolarizzare con sanatorie ad hoc. Gli effetti di questo approccio sono stati nefasti innanzitutto per i migranti. Forzati alla clandestinità, essi hanno visto negati i loro diritti, sono stati obbligati a lavorare in nero, si sono trovati sospesi fra l’impossibilità di tornare nei paesi d’origine e la stigmatizzazione in quelli d’arrivo. Ma sono stati deleteri anche per la collettività più in generale visto che, favorendo l’illegalità, essi hanno rafforzato la percezione di insicurezza e minato le basi della coesione sociale.
Per superare questa situazione, è fondamentale che sia applichino due principi. Il primo è quello, appunto, di legalità. I paesi di arrivo devono accordare un numero realistico di permessi annuali che consentano alle persone che desiderano spostarsi di farlo in modo legale, sicuro e monitorato. Questa possibilità, disincentivando i flussi irregolari, non solo garantirebbe la sicurezza e la dignità delle persone, ma permetterebbe loro di intraprendere sin dall’inizio un percorso di inserimento chiaro, basato su diritti e doveri. Nella stessa direzione è necessario creare canali di regolarizzazione continua su base individuale che permettano a chi lavora di ottenere il permesso di soggiorno. Soltanto mettendo al centro la legalità si creano le condizioni per il suo rispetto e si consolida quella legittimità necessaria per poi esigerla ai nuovi arrivati, come alla cittadinanza più in generale.
Il secondo è quello dell’integrazione. Le politiche pubbliche hanno il dovere di sostenere i processi di mutua trasformazione che coinvolgono migranti e società d’arrivo, avendo speciale cura di chi, in questo processo, vive le maggiori difficoltà. Non farlo, affidarsi al laissez-faire, produce segregazione e spalanca le porte al conflitto sociale (xenofobia e intolleranza vs. risentimento e radicalizzazione). Quello dell’integrazione è innanzitutto un problema di redistribuzione. Se i migranti vivono in condizioni sistematicamente peggiori rispetto a quelle degli autoctoni, senza opportunità di miglioramento, essi rimarranno sempre in una condizione di estraneità. Servono politiche di supporto all’apprendimento della lingua, di sostegno scolastico e abitativo, di inclusione nel mercato del lavoro. Far parte di una comunità, poi, richiede di poter partecipare ai processi decisionali. I migranti residenti devono poter partecipare alle elezioni amministrative, e dopo un tempo ragionevole (oggi in Italia ci vogliono 10 anni!) diventare cittadini e votare alle elezioni politiche. Parafrasando i coloni americani si potrebbe dire: no integration without representation. Tra l’altro, se i migranti diventano elettori è possibile disinnescare quel meccanismo perverso per cui alcuni partiti possono lucrare in termini di voti infierendo contro di loro. In fine, non ci può essere integrazione senza il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità culturali. Questo non si traduce soltanto nei principi ovvi quale quello di libertà di religione ma richiede la protezione e la promozione da parte dello stato delle culture minoritarie. Chi vede negata o addirittura screditata la sua singolarità è inevitabilmente spinto a sentirsi al margine.