Voleva vincerlo a tutti i costi il referendum sul presidenzialismo, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Lo ha dimostrato tenendo più di 40 comizi in due mesi, mettendo la faccia su centinaia di migliaia di manifesti che hanno tappezzato tutto il Paese, invadendo televisioni con spot a favore del ‘si’ a dir poco martellanti. E alla fine vittoria é stata, risicatissima, di misura, eppure mai in discussione sin dai primi momenti dello spoglio. Una contraddizione solo apparente, perché i primi risultati ad arrivare sono stati quelli delle campagne, delle aree rurali, delle città più piccole dell’Anatolia centrale dove il presidente é rais e sultano. Il recupero del ‘no’ inizia lento e inesorabile man mano che arrivano i dati delle quattro principali città: Ankara, Istanbul, Smirne e Antalya. Il fronte del presidente perde nella capitale e nella metropoli sul Bosforo, ed è la prima volta in assoluto. Se la sconfitta di Smirne non stupisce, il sorpasso del ‘no’ ad Antalya, centro turistico del Paese è un dato su cui Erdogan avrà di che riflettere. Voleva il presidenzialismo e presidenzialismo sarà, ma al di là dei proclami di rito si tratta di una “vittoria mutilata”, che gli consegna nelle mani un Paese sempre più diviso.
Erdogan ha poi rispolverato l’argomento pena di morte, la cui reintroduzione costituisce un argomento di forte impatto demagogico: “Si può fare un altro referendum”. Una circostanza che, se dovesse tramutarsi in un’altra vittoria per Erdogan, metterebbe in maniera definitiva la parola fine alla procedura di accesso della Turchia nell’Unione Europea. Poco male, perché l’Europa ha “messo la Turchia in sala d’attesa per 54 anni”, come il presidente ama ricordare, specie quando arringa i fedelissimi ricordando che Germania e Olanda, “come ai tempi del nazismo”, hanno vietato comizi ai nostri ministri, “mentre aiutano i terroristi del Pkk”. I veti di Berlino e Amsterdam hanno portato una valanga di voti al fronte del “si”: 63,3% in Germania, addirittura 71% in Olanda. E già si discute nei due Paesi se è il caso di far votare le comunità turche in un eventuale referendum sulla pena di morte.
In attesa che la riforma entri in vigore nella legislatura del 2019 il primo effetto della vittoria del ‘Si’ è stato il ritorno di Erdogan al partito Akp, con cerimonia in pompa magna lo scorso 2 maggio in attesa che il 21 di questo stesso mese il presidente torni segretario del partito. La domanda è: in quanti altri Paesi “democratici” un presidente della Repubblica è anche leader del proprio partito? Una domanda che dall’Europa nessuno si è azzardato a fare, schiacciato dal rimpianto per aver davvero messo la Turchia all’angolo per troppo tempo, averne vanificato gli sforzi e testato la pazienza, per poi buttare via anche l’ultima occasione; l’accordo sui rifugiati del marzo 2016, che Bruxelles, a differenza di Ankara non ha onorato. Mai aboliti i visti turistici, solo 790 milioni dei 6 miliardi di euro promessi sono arrivati ad Ankara.
Una ulteriore conseguenza, non del referendum, ma di un declino costante, riguarda la posizione della Turchia nella classifica della libertà di stampa. Una situazione per il cui miglioramento all’orizzonte non si configura alcuna prospettiva. In un recentissimo rapporto, Reporter senza Frontiere ha quantificato in quattro punti persi nell’ultimo anno, riferibili alle “epurazioni senza precedenti” che hanno avuto luogo in seguito al tentato golpe del 15 luglio 2016, una deriva che ha portato la Turchia al 155mo posto su un totale di 180 Paesi, davanti a Brunei, Bielorussia, Singapore e Sud Sudan, dietro a Ruanda, Iraq, Kazakistan e Russia. Una posizione frutto di un declino costante, quantificato in 56 punti persi in 12 anni, che, fa notare il rapporto, ha seguito di pari passo l’ascesa e il consolidamento al potere del presidente RecepTayyip Erdogan. “Decine di giornalisti sono finiti in carcere senza processo, facendo della Turchia la più grande prigione per operatori del settore, mentre chi è ancora libero subisce pressioni come diniego di accrediti, carte stampa e ritiro di passaporti. Allo stesso tempo la censura ha raggiunto livelli mai visti prima, anche sui social media”.
Un dato sconfortante, a fronte del quale nulla potranno le proteste e le critiche di una Europa la cui voce, dall’altra parte del Mediterraneo, non ha più alcuna credibilità.